PARLIAMO DI...


15/09/13

BN Città Spettacolo, ed.2013 - Pino Carbone rilegge “Il Contratto” di Eduardo, con pirandelliana ed efficace essenzialità

Il regista Pino Carbone
di Maria Ricca

Scenografia essenziale, luci spettrali, abiti “non-abiti” sobri. Mondato di qualsiasi riferimento alla tradizione partenopea, ad eccezione dell’accento e della cadenza tipica degli attori, è andato in scena al De Simone, in Città Spettacolo 2013,  “Il contratto” di Eduardo De Filippo, nella lettura del regista Pino Carbone, secondo omaggio, propiziato dal direttore artistico Baffi,  al grande autore, nel trentennale dalla sua morte, dopo il “Sik Sik” di Pierpaolo Sepe, con Benedetto Casillo.
Una scelta strategica, evidentemente, che ha  offerto maggior risalto alla svolta “pirandelliana” che fu del drammaturgo partenopeo, indagando sapientemente le dinamiche imperscrutabili dei rapporti umani. Tre gli atti, per altrettante fasi dell’analisi, la prima, dedicata all’individuo,  la seconda  agli affetti, la terza alla società, come si legge nelle  note di regia.
Francesca De Nicolais
Non servono fronzoli, basta, nel primo atto ed in quelli successivi,  la recitazione intensa, fatta di chiaroscuri ed ammiccanti sottolineature  del sempre versatile  Claudio Di Palma a restituire intatta la figura sinistra di Geronta  Sebezio, l’impostore che predica amore ed approfitta della buona fede altrui, promettendo resurrezione facile, nel nome dell’affetto familiare, a chi è circondato di parenti anche avidi, che sa frodare a puntino, senza giocarsi la reputazione, ma aumentando a dismisura, con funambolesca astuzia, il proprio patrimonio.  
Nel secondo atto è l’attrice Francesca De Nicolais (curatrice del testo con Carbone e Andrea de Goyzueta), soprattutto, a tenere la scena, energica interprete di una moglie abbandonata, ma combattiva, poi  vedova astuta,  nell’esplorazione delle dinamiche familiari e degli “affetti”, che fanno a pugni con gli interessi spicci, ai quali non si rinuncerebbe manco morti, appunto. Una recitazione, la sua, volitiva ed energica, a sottolineare la fatica di un’esistenza di privazioni  e dunque poco incline alla commozione e alla solidarietà. De Goyzueta  dà il volto, efficacemente, all’apparentemente ingenuo parente e sodale dell’impostore, beneficato dalla sorte, succube e  complice delle sue mire.  
Non c’è spazio per i sentimenti , ma solo per il conseguimento dell’interesse più bieco. Di quello è spettatore consapevole Geronta, di quello approfitta abilmente.
L’ultima parte dello spettacolo, “sociale”, è affidata visivamente ad una giostra di sedie e di figure colorate, la giostra della vita, che inganna chi si lascia sopraffare dalla paura e pertanto pretende il “contratto”, per assicurarsi l’immortalità. Solo alla fine, il pubblico, ormai sinistramente ammaliato dalla figura dell’impostore,  comprende l’arcano. E’ troppo tardi, ormai, non solo per  lo sciocco Napoleone, l’ultimo in ordine di tempo, che si affida alle cure di Geronta, ma per tutti i pavidi, destinati a cadere in trappola. Applausi, infine, e diverse chiamate in scena per gli interpreti della rilettura moderna di un testo davvero coinvolgente.